Accordo sui dazi tra Stati Uniti e Unione europea: effetti sull’economia e sui mercati
Stati Uniti e Unione europea hanno raggiunto un accordo sui dazi. Le merci del Vecchio continente che approderanno negli Usa saranno sottoposte a una tariffa del 15%. Verranno esentate le forniture per l’industria aeronautica, i farmaci generici e le sostanze chimiche mentre su alluminio, rame e acciaio rimarrà un prelievo del 50%. Pur essendo stato oggetto di molte critiche e senza essere ancora formalizzato, l’accordo serve a fare chiarezza sulla situazione e permette di stimare quale potrebbe essere l’impatto dei dazi sull’economia e sui mercati.
Il deal asimmetrico tra Ue e Usa è un passo avanti rispetto alle aspettative del mercato. I mercati finanziari hanno reagito all’accordo con sollievo per l’allontanamento di una guerra commerciale che sarebbe stata devastante per entrambe le economie.
Economia e dazi: l’effetto su Pil e inflazione
Nel secondo trimestre del 2025, l’economia statunitense ha mostrato una crescita robusta del 3%, superando le previsioni, recuperando il -0,5% con cui aveva aperto l’anno. Per l’intero 2025 la stima sul Pil è stata rivista al ribasso dal 2,1% all’1,5% per il 2025 e dal 2% all’1,6% nel 2026. Per l’eurozona il consenso prevede una crescita del Pil dell’1% circa per il 2025 e dell’1,1% per il prossimo anno.
“Il consenso degli economisti – riprende Tentori – aveva già rivisto al ribasso le stime per il 2025 e per il 2026. Per quanto riguarda gli Usa, l’aumento dei prezzi delle importazioni ha un impatto negativo stimato sul Pil di circa lo 0,7%, mentre l’impatto atteso sull’eurozona è dello 0,5%”.
L’incidenza delle tariffe sulla componente inflazione dei prezzi al consumo negli Stati Uniti appare finora contenuta. Nei primi sei mesi del 2025, la variazione media è stata del 2,6%, in flessione rispetto al 3,2% dello stesso periodo dell’anno precedente. Tuttavia, si attende un’accelerazione nella seconda metà dell’anno, che potrebbe portare la media annuale vicino al 3%. “Da parte delle aziende arrivano indicazioni in tal senso, come margini di profitto stabili e trasmissione dei costi di produzione al consumatore”. Lo scenario inflattivo appare meno preoccupante in eurozona, con le aspettative del consensus macro di Bloomberg al 2% per il 2025 e all’1,9% per il 2026.
Il dilemma della Federal Reserve
Il prossimo presidente della Federal Reserve (il mandato di Jerome Powell scade a maggio 2026) potrebbe non avere i dubbi dell’attuale. Tuttavia, al momento, la Banca centrale americana deve affrontare un dilemma: “A causa della forte incertezza, la Fed si trova stretta tra un probabile aumento della pressione inflazionistica e una congiuntura economica indebolita dalla politica commerciale”.
Finora Powell ha tenuto le posizioni, confermando i tassi di interesse nell’intervallo tra il 4,25% e il 4,5%. Il taglio, di 25 punti base, potrebbe arrivare nella riunione di settembre. Le stime del Cme FedWatch danno una probabilità superiore al 90% di una riduzione.
“Abbiamo ancora due rapporti sull’occupazione prima del prossimo Fomc del 17 settembre” ricorda il manager di Axa IM che non se la sente di escludere uno scenario di tassi di interesse stabili nel breve/medio periodo”.
La reazione dei mercati finanziari e le previsioni
L’accordo sui dazi ha prodotto una reazione di sollievo nei mercati finanziari, evitando una guerra commerciale aperta. Il cambio euro/dollaro ha subito un declino improvviso, invertendo la tendenza di indebolimento del dollaro vista dall’inizio dell’anno. Per Tentori una stabilizzazione dell’EUR/USD “riaprirebbe la finestra per gli investitori internazionali”. Questi ultimi sono stati finora penalizzati dalla discesa del biglietto verde.
Inoltre l’azionario Usa “tanto bistrattato da inizio anno ma già in forte recupero dopo il Liberation Day” potrebbe sfruttare il sempre presente “gap d’innovazione tecnologica tra Stati Uniti ed Europa. Oltre a questo ci sono ulteriori fattori, come gli investimenti dell’Ue negli Usa previsti dall’accordo in 600 miliardi di dollari, secondo quanto annunciato dalla Casa Bianca, e il ridimensionamento del rischio legato alle politiche commerciali”.
Nel comparto obbligazionario, le pressioni provenienti da politiche fiscali e monetarie continuano a influenzare negativamente i titoli governativi. Questi ultimi – conclude Tentori – non sono da preferirsi al rischio di credito, prezzato molto vicino ai minimi storici”.