Il debito pubblico in Italia ha sempre rappresentato un argomento spinoso, che spesso ha limitato gli investimenti e la crescita nel Paese, nonché è stato foriero di gravi crisi finanziarie come avvenuto nel 2011. Le spese incontrollate, a fronte di introiti insufficienti, hanno fatto lievitare negli anni l’esposizione debitoria del nostro Paese. In questo modo si è innescato un circolo vizioso, in quanto maggiore è il debito più è l’entità degli interessi che bisogna pagare su di esso, che a loro volta comportano altro debito che produce altri interessi. Questa situazione si rende particolarmente stringente nei periodi di gravi turbolenze finanziarie come riflesso di crisi politiche ed economiche, che fanno diminuire la fiducia nei confronti del Paese emittente e alzare i tassi di interesse.
Negli ultimi 20 anni, non sono mancate le occasioni affinché il debito pubblico venisse messo sotto pressione. Il crollo delle dot-com, la grande crisi del 2008 con i mutui subprime, la crisi del debito sovrano nel 2011, la pandemia da Covid-19 nel 2020 e gli shock energetici e inflazionistici del 2022 sono alcuni degli esempi più emblematici che hanno agitato i mercati e messo in difficoltà il debito dello Stato. L’Italia attualmente ha il debito più grande d’Europa, dopo quello della Grecia, con al 31 dicembre 2023 un passivo di 2.387 miliardi di euro, pari al 140,2% del PIL (dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze).
Debito pubblico: cos’è
Ma cos’è realmente il debito pubblico? Uno Stato sostiene spese correnti e investimenti (o spese in conto capitale). Le prime si riferiscono soprattutto al pagamento degli stipendi dei dipendenti della Pubblica Amministrazione, alle prestazioni sociali e agli interessi passivi. Le spese correnti vengono finanziate dalle entrate correnti, costituite per lo più dalle imposte dirette e indirette, dalle tasse e dai contributi. Le spese in conto capitale si riferiscono alle uscite straordinarie, che concernono le opere infrastrutturali, l’acquisto di partecipazioni statali e tutte le altre operazioni che non rientrano nell’ordinaria amministrazione. Il finanziamento di questi investimenti è attuato attraverso le entrate extra-tributarie, come la vendita di beni patrimoniali e i trasferimenti in conto capitale.
Se alla fine dell’anno, la differenza tra le entrate e le spese complessive è positiva dà luogo all’avanzo di bilancio, che viene detto primario se non comprende gli interessi sul debito pubblico. Qualora la differenza in parola sia negativa, si parla di deficit di bilancio o indebitamento netto. Per molti degli ultimi 30 anni, l’Italia si è trovata in avanzo primario, ma poi il bilancio è risultato in deficit per via degli interessi prodotti dalla mole importante del debito. Ecco una rappresentazione schematica del bilancio dello Stato.
Il deficit di bilancio implica che uno Stato deve farsi prestare del denaro per finanziare le spese in eccesso rispetto alle entrate e lo fa ricorrendo all’emissione di titoli di Stato come BTP, BOT, CCT, CTZ e altri strumenti di debito. Il cumulo negli anni dei deficit di bilancio, al netto dei rimborsi effettuati ai creditori, costituisce il debito pubblico di uno Stato. Ecco di seguito un grafico che illustra come è finanziato il debito pubblico italiano al 31 dicembre 2023:
Ecco le regioni più e meno indebitate
Secondo i dati della Banca d’Italia che si riferiscono all’anno 2022, la regione italiana più indebitata risulta il Lazio con una consistenza di 28,3 miliardi di euro, pari al 24,3% del totale. Seguono Campania con un debito di 15,6 miliardi di euro (13,4% del totale), Sicilia, Lombardia e Piemonte con un livello di poco oltre i 10 miliardi di euro. Le più virtuose sono le regioni di Valle D’Aosta, Molise e Basilicata con un debito pubblico inferiore a 1 miliardo di euro. A seguire troviamo Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige con un ammontare di 1,3 miliardi di euro.
Anche la dinamica è stata molto diversa. Da 1998 al 2022, c’è stata una grande crescita in Campania (+347%), nel Lazio (+270%), in Calabria (+241%) e in Sicilia (+185%). Viceversa, si è registrata una riduzione in Friuli-Venezia Giulia (-16%), Emilia Romagna (-19%) e Sardegna (-39%) grazie a politiche rigorose di risanamento dei conti pubblici.