“Un numero enorme di piccole e medie imprese di alta qualità, innovative e orientate all’esportazione, alle quali è fondamentale garantire i capitali per crescere e diventare internazionali”. Con questa frase, nel corso del convegno organizzato lo scorso luglio da Aifi (Associazione italiana private equity) a Londra dal titolo “Italy 2022, reforms and transition to growth”, il presidente di Aifi Innocenzo Cipolletta ha tracciato il quadro alla base delle attese di sviluppo del private equity in Italia. Prospettive rosee anche in uno scenario difficile come quello attuale, con elevata inflazione, politiche monetarie in via di restrizione, rischio recessione, difficoltà nelle catene di approvvigionamento globali, transizione energetica. Prospettive rosee che derivano tuttavia anche dal terreno che l’Italia deve colmare rispetto ad altre nazioni.
Pmi troppo piccole per competere?
Per Jean-Pierre Di Benedetto, managing partner di Argos Wityu, gruppo di private equity europeo “in Italia le aziende che hanno bisogno del supporto del private equity sono molto più numerose che in altre nazioni. In Italia – ha proseguito – ci sono una ventina di società a grande capitalizzazione e poi si scende immediatamente a imprese da 200-300 milioni di euro di fatturato o meno”. Secondo Di Benedetto nel Belpaese manca il “mid market” ossia un’ossatura di imprese intermedie in grado di resistere alle sfide di oggi, presente invece in altri paesi come la Francia. “Sotto questo aspetto l’Italia è un paese che offre rilevanti opportunità di sviluppo per il private equity che può offrire un supporto quantitativo sotto forma di capitali e qualitativo sotto forma di competenze per far evolvere le imprese”.
I numeri in crescita del private equity in Italia
Le cifre danno ragione a Di Benedetto. Il private equity è in crescita in Italia anche se il divario rispetto alle altre nazioni rimane presente. Secondo l’ultimo Private Equity Monitor dell’università Liuc, nel decennio tra il 2012 e il 2021 gli investimenti di private equity in Italia sono quasi triplicati mentre sono raddoppiati in Germania e Gran Bretagna. L’ammontare investito è passato, secondo lo studio condotto in collaborazione con Aifi, da 1,3 miliardi di euro a 11,1 miliardi nel 2021.
L’effetto sulle imprese che hanno beneficiato di investimenti da private equity è evidente nello studio di PwC “The economic impact of private equity and venture capital in Italia”. Il tasso di crescita annuo composto (cagr) delle società in mano a private equity si è aggirato tra il 5 e il 6,5% negli anni tra il 2016 e il 2020 a fronte di tassi di crescita del pil inferiori all’1,5%. Il tasso di crescita degli occupati si è attestato al 5,4% nel 2020 con una media intorno al 5% nel quinquennio 2016-2020 a fronte di un tasso nazionale tornato positivo solo nel 2019 (+0,3% nel 2020). “Credo che il 5% di tutta la forza lavoro europea sia impiegata in società controllate da private equity – ha sottolineato Di Benedetto citando il dato di Invest Europe, l’Associazione europea del private capital -. Ciò smentisce la cattiva nomea dei private equity, spesso visti come nemici dell’occupazione. Al contrario, nel lungo periodo l’occupazione nelle imprese acquistate da private equity aumenta”. Nel 2020, per esempio, sono stati aggiunti 103.566 posti di lavoro grazie a queste società. “Oggi il peso del private equity nell’economia è cresciuto enormemente – è la conclusione del managing partner di Argos Wityu – ha restituito ritorni superiori con volatilità inferiore rispetto ai mercati pubblici (le Borse ndr) e ha fatto crescere le aziende nelle quali ha investito”.
Perché le imprese italiane avranno sempre più bisogno di private equity
Per crescere c’è bisogno di tempo e spesso il mercato questo tempo non ce l’ha. Le imprese vengono giudicate da una trimestrale se non dalla variazione dei dati di vendita mensili. È una situazione che diventa anacronistica in un mondo che richiede alle imprese trasformazioni complesse, investimenti onerosi, programmazioni che spesso hanno un ritorno solo nel lungo periodo. Se si pensa che le imprese italiane sono finanziate per il 44% da prestiti di breve termine, come hanno sottolineato Michele Paolo D’Angelo e Marco Montagner di Oliver Wyman, contro il 30% per le imprese di altre nazioni europee, il rischio di rimanere indietro nella competizione è elevato. A ciò si deve aggiungere l’alta dipendenza dal finanziamento bancario, un canale che è però destinato a subire l’impatto di diversi fattori: la direttiva Basilea IV che rafforza i requisiti di capitale per le banche, spingendole a ridurre le esposizioni meno sicure; l’impatto del Covid-19 su alcuni settori, che rende necessaria una maggiore attenzione nel finanziare determinati settori o imprese; lo stesso dicasi per gli effetti nelle interruzioni delle catene di fornitura e per l’inflazione.
“C’è il rischio di un credit crunch in alcuni settori dell’economia italiana nei prossimi anni” concludono i due specialisti di Oliver Wyman nell’articolo pubblicato su Private Equity Insight “e il private equity può svolgere un ruolo chiave nel fornire capitali all’industria italiana favorendo la ristrutturazione dei settori più in difficoltà”.