Il problema, alla fine, è sempre lo stesso. Ogni volta che il dollaro Usa sale, ogni volta che i tassi di interesse offerti dai Treasury Usa salgono, ogni volta che la Federal Reserve degli Stati Uniti stringe la cinghia della politica monetaria, una tempesta si scarica sui paesi emergenti, in particolare su quelli dell’America Latina. È successo negli anni ’80, potrebbe succedere di nuovo oggi, nonostante le economie e la gestione finanziaria di queste nazioni siano nel frattempo cambiate. Che il rischio di una nuova ondata di default in America Latina ci sia lo ha confermato un recente studio del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp), intitolato “Avoiding: too little, too late”, secondo cui 10 paesi dell’area (compresi i Caraibi) potrebbero essere coinvolti.
Come funziona la trappola del default
Il rischio c’è per tutti i paesi emergenti, non solo per quelli dell’America Latina, i quali appaiono però tra i più esposti. La trappola dalla quale sembra impossibile uscire ha il colore verde della valuta statunitense. La scarsa credibilità sui mercati finanziari e la debolezza delle valute costringono i governi di queste nazioni a emettere debito in dollari (valuta forte). Il perché è facile da comprendere. Un creditore in dollari ha la sicurezza di stabilità sul valore del suo credito. Un creditore in valuta emergente rischia di vedere svalutarsi il valore del suo credito insieme alla valuta in cui è denominato. Pertanto o domanderà un maggiore tasso di rendimento o preferirà investire in titoli definiti in dollari. Tuttavia le entrate dello Stato (emergente) rimangono in valuta locale. Quando la Fed rialza con decisione i tassi di interesse il dollaro Usa si rivaluta e stringe il cappio al collo dei governi di questi paesi che devono raccogliere più tasse in una valuta che ha perso valore rispetto al dollaro per onorare i loro debiti. Fino a quando riescono a farlo.
I default in America Latina negli anni ’80, la “decada perdida”
Gli Stati Uniti non sono ben visti a sud del Golfo del Messico, per ragioni storiche e politiche. E tra i suoi esponenti all’ex presidente della Fed Paul Volcker (scomparso nel 2019) è associato un ricordo molto sgradevole. Negli anni ’70, quelli dello shock petrolifero e dell’inflazione sopra il 10% (raggiunse il 14,8% nel 1980), Volcker portò i tassi sui Fed funds al 20% sconfiggendo il carovita ma condannando al default l’America Latina. Cadde per primo il Messico, poi l’Argentina, poi negli anni ’90 toccò a Bolivia, Brasile, Venezuela, Paraguay ed Ecuador. Da allora le crisi si sono susseguite periodicamente con alcuni paesi colpiti più volte, come l’Argentina. Secondo Graham Stock, EM Senior Sovereign Strategist di BlueBay, ci sono paralleli inquietanti tra l’attuale contesto e le cause della crisi del debito scoppiata in America Latina e in altri mercati emergenti negli anni ’80. In primo luogo lo shock inflazionistico determinato dall’aumento dei prezzi dell’energia, in secondo luogo il forte inasprimento della politica monetaria statunitense. “All’epoca – spiega Stock – gli shock del prezzo del petrolio degli anni ‘70 crearono la necessità di ricorrere a prestiti esteri per finanziare i massicci disavanzi delle partite correnti e alle risorse disponibili. I prestiti latinoamericani dalle banche commerciali statunitensi e da altri creditori aumentarono drasticamente da 29 miliardi di dollari alla fine del 1978 a 327 miliardi di dollari nel 1982”.
Cosa è cambiato oggi rispetto agli anni ‘80
Ci sono però anche delle differenze rispetto allo scenario che ha dato origine alla “decada perdida”. Differenze che non mettono al riparo i paesi dell’area ma rendono meno facile la loro caduta. Finora, in effetti, non si sono registrati default né tensioni forti sui mercati finanziari di queste nazioni. Per Graham Stock “i governi hanno ridotto la loro dipendenza dai finanziamenti esteri attuando politiche fiscali più severe e sviluppando mercati interni più profondi. I mercati obbligazionari in valuta locale semplicemente non esistevano negli anni ‘70, mentre nel 2022 i Ministeri delle Finanze di Brasile, Messico, Colombia e Cile hanno previsto emissioni interne nette per oltre 160 miliardi di dollari. Inoltre, quando i governi contraggono prestiti all’estero per finanziare i deficit di bilancio, possono generalmente farlo a lungo termine a tassi fissi. Negli anni ‘70, i governi contraevano prestiti a breve termine a tassi variabili, motivo per cui i rialzi della Fed di Volcker si rivelarono così dolorosi”.
Anche sul fronte dell’indebitamento, nonostante il problema rimanga, lo scenario è cambiato. Tra il 1970 e il 1982 il debito estero dei paesi latinoamericani crebbe del 20% all’anno. Dopo il 1982 il tasso medio di crescita è stato inferiore al 5% con una crescita economica che ha mantenuto più o meno lo stesso ritmo. Infine i paesi della regione hanno accumulato un cuscinetto di riserve internazionali di oltre 835 miliardi di dollari che copre, secondo Graham, oltre il 40% delle passività esterne.
“Nel complesso – conclude Graham – l’America Latina non sembra essere a rischio di una nuova crisi del debito”. Tuttavia bisogna prestare attenzione alle differenze tra paese e paese: “L’Argentina, per esempio, è un paese perennemente inadempiente e ha ristrutturato le obbligazioni sovrane nel 2020”. Anche se il debito pubblico dell’Argentina è pari al circa il 75% del Pil, la capacità di servizio del debito è cronicamente debole “ in particolare nel quadro delle politiche economiche populiste dell’attuale amministrazione peronista. Riteniamo – puntualizza lo strategist di BlueBay – che i prezzi prevalenti del debito, pari a circa 25 centesimi di dollaro, riflettano appieno queste sfide e saliranno più vicino ai valori di recupero di 40-50 centesimi, man mano che il mercato valuterà la probabilità di un governo più favorevole al mercato nel 2024”.