I fondi pensione a benefici definiti stanno attraversando un periodo molto particolare, dove fanno fatica a stare dietro alle passività generate dagli esborsi garantiti. Questa tipologia di fondi si caratterizza per il fatto che i rendimenti dei partecipanti sono assicurati da un tasso minimo che si muove insieme all’inflazione. Per fare questo gli organismi collettivi devono ottenere dalle loro attività dei ritorni periodici certi che solo obbligazioni ad alto rating possono assicurare.
Il problema negli ultimi tempi è stato che i rendimenti obbligazionari investment grade sono stati molto scarsi tenuto conto dell’inflazione in continuo aumento e incapaci soprattutto di compensare le uscite periodiche dalle rendite pensionistiche. Ad aggravare la situazione un invecchiamento della popolazione che ha richiesto flussi di cassa maggiori.
Fino a questo momento a reggere la baracca sono stati i mercati azionari, che grazie al loro straordinario rally dalla crisi finanziaria del 2008 hanno assicurato delle entrate aggiuntive ai fondi pensione. Ora però il quadro manifesta alcune aspetti critici, anche alla luce della pressione dei Regolatori che vigilano sul mantenimento di un rischio di portafoglio adeguato. Il sentiment all’interno del settore sta peggiorando, con il 70% degli operatori che si aspetta rendimenti più bassi negli anni a venire, secondo un sondaggio realizzato da Create Research che ha intervistato 152 piani pensionistici a benefici definiti del valore complessivo di 2.100 miliardi di euro. A questo punto molti si stanno chiedendo come uscire dall’impasse, trovando investimenti alternativi che riescano quantomeno a rendere la situazione sostenibile in attesa di tempi migliori.
Fondi pensione: ecco dove stanno investendo
La tendenza in questo momento sembra essere quella di spostare l’attenzione verso le attività private. Lo studio della società di ricerca afferma che l’allocazione in questa tipologia di assets è aumentata negli ultimi 15 anni dal 5% al 20% sulla prospettiva di una crescita del capitale che possa proteggere dagli effettivi inflazionistici. Stando inoltre alle previsioni di Preqin, fornitore di dati con sede a Londra, entro la metà del decennio le partecipazioni in debito privato, private equity, immobili e altre infrastrutture private aumenteranno del 60% a 17 miliardi di dollari.
Il problema però rimane il fatto che, non operando nei mercati pubblici, gli assets privati diventano rischiosi e anche costosi dal punto di vista informativo, pertanto il ritorno dell’investimento è tutt’altro che assicurato. Ciò richiede per forza di cose un’attenta e analitica selezione a livello manageriale per individuare quelle risorse meno sottoposte a rischio e che hanno potenzialità di rendimento più alte.
In questo momento tuttavia sembra l’unica strada percorribile, secondo Pascal Blanqué, direttore degli investimenti del gruppo presso Amundi, che definisce l’entrata in attività rischiose non come l’opzione migliore ma l’unica possibile.
Da quando è scoppiata la pandemia poi qualcosa sembra essere cambiato radicalmente nelle scelte dei gestori. Il 75% dei fondi pensione che hanno partecipato al sondaggio aveva affermato di aver perseguito strategie a basso rischio nel 2019. Oggi le cose stanno diversamente e molti si stanno attivando alla caccia di rendimenti più interessanti.
All’inizio di novembre il California Public Employee’s Retirement System, ossia il più grande fondo pensione americano, ha preso una decisione importante: prendere in prestito per effettuare investimenti nei mercati privati. Prima di esso, il fondo canadese Ontario Teachers’Pension Plan ha pianificato questa estate investimenti per 70 miliardi di dollari canadesi da destinare a infrastrutture e immobili. Questi sono solo alcuni esempi di un modus operandi per impedire che il meccanismo dei fondi pensione salti, ma che può presentare molte criticità se qualcosa andrà storto.