La Cina non riesce più a essere la Cina. La Repubblica popolare stenta economicamente e il rilancio post-Covid, con la riapertura dell’economia, è stato un flop dopo un promettente inizio. I problemi dell’ex-Celeste Impero non nascono con la pandemia ma con il modello di sviluppo perseguito negli anni precedenti che ora sta presentando il conto. Ecco perché la crisi della Cina è, secondo Sandeep Rao, responsabile della ricerca di Leverage Shares, una malattia silenziosa “che richiederà anni di lavoro per essere curata”.
Crisi Cina: momento Lehman o decennio perduto alla giapponese?
Produzione industriale e vendite al dettaglio sono solo due degli indicatori che hanno deluso le aspettative degli analisti e hanno segnato un arretramento a luglio rispetto alle rilevazioni precedenti. La “pagella” della Cina abbonda di segni meno, ecco i più recenti pubblicati nel mese di agosto.
- Tasso di disoccupazione (luglio): +5,3% da +5,2% contro attese a +5,3%;
- Produzione industriale (luglio): +3,7% da +4,4% contro attese a +4,4%;
- Nuovi mutui (luglio): 345,9 miliardi da 3.050 e contro attese a 800;
- Prezzi alla produzione (luglio) m/m: -0,3% da 0% e contro attese a -0,2%;
- Prezzi alla produzione (luglio) a/a: -4,4% da -5,4% contro attese a -4,1%;
- Prezzi al consumo (luglio), m/m: +0,2% da -0,2% e contro attese a -0,1%;
- Importazioni (luglio): -12,4% da -6,8% e contro attese a -5%;
- Esportazioni (luglio): -14,5% da -12,4% e contro attese a -12,5%;
- Pmi manifatturiero: 49,2 da 50,5 contro attese a 50,3;
- Pmi servizi: 54,1 da 53,9 contro attese a 52,5.
A questi dati economici deludenti si sovrappongono i tonfi sordi del mercato immobiliare. Gli ultimi in ordine di tempo sono stati la nuova istanza di fallimento presentata da Evergrande e il mancato pagamento di una serie di obbligazioni da parte di Country Garden, il più grande sviluppatore immobiliare cinese. Alcuni analisti si sono spinti a comparare la crisi della Cina a un nuovo “momento Lehman”, le cui conseguenze si farebbero sentire sui mercati finanziari in tutto il mondo. Un’associazione che per Ben Bennett, responsabile delle strategie e della ricerca di LGIM, non è corretta. Tuttavia la similitudine alternativa proposta dallo strategist è altrettanto negativa: la crisi giapponese dei primi anni ’90.
“In generale, riteniamo che le condizioni di stress attuali segnino la fine di un periodo di forte crescita, con l’economia che inizia a risentire di squilibri presenti da molti anni, ma che fino a ora non erano stati impattanti. Una situazione non dissimile da quella osservata in Giappone e Corea del Sud nei primi anni Novanta” commenta Bennett.

Cosa succederà alla Cina?
L’associazione tra la Cina attuale e il Giappone dei primi anni’90 è sicuramente meno pesante per i mercati finanziari. Viene evitato il rischio Lehman, ossia la possibilità che il sistema finanziario globale venga travolto. “La Cina – riprende Bennett – può fare affidamento su un sistema bancario interamente in mano allo stato e quindi le autorità hanno gioco facile nel dirigere i flussi di capitale dove ce n’è più bisogno. Inoltre il livello minimo delle riserve è alto se comparato a quello di altre grandi potenze economiche, 10% contro 5%, e questo garantisce buoni margini di manovra. Anche le banche locali hanno, infine, livelli di capitalizzazione buoni con un rapporto prestito/deposito dell’80% circa”.
Nessun momento Lehman quindi. Tuttavia la crisi della Cina implicherà un cambiamento nel regime di crescita del paese che durerà anni. “Dopo un lungo periodo di sovrainvestimenti, in particolare in ambito abitativo – spiega Bennett – è probabile che la crescita si attesterà attorno alla metà di quella osservata nei 15 anni prima della pandemia di Covid-19 e su questo punto le somiglianze con il Giappone, che dopo lo scoppio della bolla negli anni Novanta passò da un tasso del 5% a uno del 2,5%, sono innegabili”.
Alla perdita di uno dei pilastri della crescita pre-Covid della Cina (il settore immobiliare) si aggiunge il preoccupante dato sulla disoccupazione giovanile, al 21,3% per la fascia di età tra i 16 e i 24 anni. Anche questo è un segnale netto di come la Repubblica Popolare stia cambiando. Per Sandeep Rao di Leverage Shares si tratta di un livello preoccupante: “Una caratteristica ricorrente della riluttanza dei giovani cinesi ad accettare alcuni posti di lavoro è la bassa retribuzione rispetto ai lavori che dovrebbero svolgere. Negli ultimi tempi, la leadership politica cinese si è mostrata piuttosto indifferente a queste preoccupazioni, esortando i giovani a ridurre le loro aspettative e a non lamentarsi”.
La ragione della riluttanza a intervenire sui salari è legata alla concorrenza che la Cina subisce da altri paesi asiatici emergenti, in grado di produrre a costi inferiori. Un aumento dei salari avrebbe quindi impatti pesanti sulla capacità competitiva del paese a meno di non arrivare a proporre prodotti dal valore aggiunto molto elevato.
Gli effetti sui mercati della crisi cinese
Nella prima seduta della settimana gli indici cinesi sono stati tra i migliori in Asia. Dopo aver toccato picchi di rialzo intorno al 4%, hanno terminato le contrattazioni con un guadagno di circa 1,5 punti percentuali. La ragione della buona apertura di ottava è da ricercarsi negli interventi della China Securities Regulatory Commission (CSRC):
- Rallentamento del ritmo delle IPO;
- Dimezzamento dell’imposta di bollo sulle transazioni finanziarie (da 0,1% a 0,05%);
- Restrizioni sulle attività di rifinanziamento delle aziende che sottoperformano (ad eccezione del settore immobiliare).
Palliativi in attesa di un intervento più significativo promesso dal governo centrale che finora non si è palesato e che, a parere di Ben Bennett, non arriverà se non in caso di grave emergenza o prima che della National Financial Work Conference prevista nel quarto trimestre, della terza sessione plenaria del Pcc e del meeting del Politburo in programma a ottobre.
Nel complesso le prospettive future rimangono fosche conclude Rao e il governo centrale “non può fare altro che sostenere la Cina prima che smetta di essere un’economia di mercato e si trasformi in un’economia di comando. Visti i dati economici a disposizione e gli indicatori indiretti che se ne deducono, si può ipotizzare che ogni trend rialzista sostenuto raggiungerà presto il suo picco, per il semplice motivo che l’economia cinese si trova tra l’incudine e il martello e richiederà probabilmente anni di lavoro per essere guarita.